La ricorrenza dei cento anni dal coinvolgimento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale ha dato avvio, soprattutto nelle aree che furono più o meno direttamente coinvolte dai fronti di guerra, a una nutrita serie di iniziative espositive e teatrali oltreché a svariati incontri, dibattiti, seminari, ecc.: la musica è stata toccata senz’altro in maniera più marginale dall’ondata celebrativa, e, nel caso, con iniziative di tipo documentaristico (i canti di guerra, le musiche militari, i canti alpini). Ma il festival di Camino, che è controcorrente a partire dal nome e a favore fin dalle sue prime iniziative di una musica e di un’arte dinamica e nomade, ispirata al misterioso sgorgare dal nulla del fiume Varmo, intende invece il centenario come occasione di riflessione fuori dal coro, articolata secondo alcune linee che vengono qui esposte in breve.

1. Nessuna ambiguità nell’intento celebrativo: la guerra resta l’atto antisociale assoluto e nessuna scusante cronologica può impedirne il rifiuto espresso e ribadito a chiare lettere. Quando nel 1933 Albert Einstein chiede la collaborazione di Sigmund Freud per indagare i presupposti culturali e antropologici della guerra ne esce un pamphlet-epistolario dal titolo Warum Krieg? (Guerra perché?) dove l’ombra del macello passato si proietta sinistramente su quello a venire. Ecco, proprio partendo da quello scambio di lettere, vogliamo trasportare gli exempla del XX secolo nell’attualità di guerra che ci circonda. Bando dunque alla tenerezza per foto ingiallite dal fronte, per baci alle fidanzate sulle banchine delle stazioni ferroviarie e per tutta la paccottiglia da rigattiere improntata a trasferire la portata del primo massacro organizzato su scala globale in sbiadito fenomeno di costume. Il presente, che si declina oggi in mercato globale, concentrazione del capitale, migrazione dal Sud del mondo e pulizia etnica, è aggressivo più che mai, e l’archetipo biblico (l’Apocalisse) è già sufficientemente e strutturalmente intriso di guerra per stare a sospirare su qualsivoglia centenario: se sguardo retrospettivo ha da essere, che sia almeno utile a svelarne mistificazioni e sviamenti.

2. Indagine storiografica sulla metafora (bellica) del termine avanguardia: prendendo simbolicamente il 1909, anno di pubblicazione del Manifesto del Futurismo di Marinetti, a spartiacque cronologico di una frattura epistemologica nella coscienza dell’uomo occidentale, la parola, che pure non appare alla lettera nel manifesto – il cui vocabolario è già comunque di per sé intessuto di guerra – è tra quelle che sopravvivono e si trasformano presto in categorie estetiche atemporali. È anche però a partire dagli quegli stessi anni che l’artista si sente investito della funzione di faro che illumina il suo pubblico (borghese) indicandogli la rotta, benché (ossia, perché) ne percepisca contemporaneamente il rifiuto all’essere seguito nel cammino intrapreso. Se è vero che all’avanguardia, o gruppo militare di avanscoperta, è riservato il compito di esplorare le difese del nemico per poi riferirne i punti di debolezza, ebbene lo stesso ruolo è assegnato all’artista ma, e qui sta il paradosso, non per nomina superiore e gerarchica, ma, per così dire, per autoproclamazione da certificare attraverso l’opera. Ma il pubblico, proprio il pubblico borghese di cui l’artista d’avanguardia ha un così disperato bisogno, ebbene, quel pubblico ha sempre di meno desiderio di seguire, nelle occasioni di ciò che pur continua a considerare intrattenimento, l’artista su sentieri impervi e accidentati: all’artista l’onore di correre per primo in avanti, ma senza più modo d’inviare dispacci. La situazione delle avanguardie, in un secolo, non è poi cambiata molto, e forse occorre un festival di musica – che d’avanguardia non è né mai ha voluto essere – per chiedere a gran voce di farla finita con la parola stessa e per sperare finalmente che l’arte non abbia più bisogno di ricorrere alla brutalità dei vocabolari di guerra.

3. Le apocalissi passate, presenti e quella declinata al futuro della Bibbia; le ferite di occupazioni che non si rimarginano: sia che ci lasci ormai indifferenti in Palestina sia l’altra, speculare e stranamente rimossa da secoli, in Australia; l’ecatombe delle due guerre mondiali, la tensione verso una pace fragile e pericolante e infine l’ambiguità di troppi artisti dell’avanguardia storica di fronte all’interventismo: questi i temi e i miti da affrontare qui.

Per Camino Contro Corrente abbiamo chiesto la collaborazione di musicisti, compositori, attori, artisti, scrittori e saggisti che hanno risposto con generosità all’appello. Gli artisti, alla cui presenza il festival non intende rinunciare, poiché la loro attività riesce a collegarsi al mondo reale con un’evidenza che forse manca alla musica, contribuiscono con quattro messaggi di grande forza e impatto emotivo: i brandelli di corpi lasciati a dissolversi sotto la pioggia nelle installazioni di Sara Tozzato, il rapporto difficile tra immaginario individuale e memoria collettiva nelle fotografie di Valentina Merzi, la dinamica tra singolo e massa nel video di Sabrina Muzi, l’intenso andirivieni allegorico tra un adesso e un prima, tra un laggiù e un quaggiù del mondo nel progetto di comunicazione disseminativa di Tom Nicholson.

Anche il cuore di Camino Contro Corrente, la musica, che intrattiene un difficile rapporto politico con la realtà, ostacolata dalla presunta incomunicabilità della materia stessa, riesce ad articolarsi in concerti e azioni che incidono in molte maniere sul soggetto. A partire dalle numerose prime assolute e italiane presenti, opere che non si pongono più come unico fine la rivoluzione del linguaggio in sé ma una più sciolta relazione con l’ascoltatore, il festival presenta uno sfaccettato panorama di lavori che spaziano dal sarcasmo antibellico all’elegia e alla commemorazione, fino a modi più specifici di engagement nel concerto per flauto e pianoforte che Francesca Cescon e Alessandro Segreto vogliono dedicato alla pace (Pacem in terris)e nel concerto di Marija Jovanović che rivisita il genere della battaglia rinascimentale per organo (Alla battaglia!). Oltre al concerto multimediale Graffiti di combattimento, contenitore curato da Marco Marinoni con interventi di forte impatto concettuale, visivo e auditivo, merita sottolineare che il tema dell’Apocalisse, centrale nel festival, è anche l’occasione per la ripresa di Le sette trombe dell’Apocalisse, ampio lavoro di Davide Liani, di cui ricorrono i dieci anni dalla scomparsa e figura di intellettuale caminese alla quale dobbiamo non soltanto la possibilità di usufruire di spazi culturali unici in contesti del genere, ma anche una ricchissima produzione compositiva che merita uno studio e una diffusione maggiore. Sempre all’Apocalisse, oltre alla conferenza di approfondimento del biblista Stefano Bindi, sono poi dedicati altri brani di compositori italiani e australiani. Un ultimo cenno va all’incontro con un altro poeta friulano, Gian Giacomo Menon, intellettuale appartato, fuori dal mondo, di cui proponiamo nell’inedita forma di concerto-reading, una scelta di poesie, alcune messe in musica dagli studenti del Master di Composizione tenuto a Camino fin dal 2008, altre da compositori professionisti, altre infine drammatizzate e agite grazie alla collaborazione tra il gruppo performativo Collettivo Rituale e la Compagnia del Teatro alla Murata di Mestre. Precede il concerto un incontro di approfondimento con questa solitaria voce di poeta tenuto da Cesare Sartori, che di Menon è attento esegeta e curatore.

Questo è il vostro piccolo e tenace festival, che dopo sette anni di iniziative dal basso ottiene un primo riscontro ufficiale da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia. Si tratta di soldi della collettività, di tutti noi e non vogliamo dimenticarlo: questo deve spingerci non a una maggiore spensieratezza, ma al contrario a un impegno di ricognizione artistica sempre più limpido e costante.

Riccardo Vaglini 2015

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