VENERDI’ 20 NOVEMBRE ore 18 ritrovo alla Biblioteca comunale e processione di apertura
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Antonio Vasta, Ciaramedda a pparu (zampogna a paro)
Suonate, nenie e ballitti della tradizione calabrese e siciliana (parte prima)
La zampogna a paro (ciaramedda a pparu) è uno degli strumenti più importanti della tradizione musicale orale della Sicilia. La caratteristica peculiare della zampogna a paro è la lunghezza identica (pari) delle due canne melodiche, da cui deriva la denominazione. In tutta la sua area di presenza, Sicilia e Calabria meridionale, la zampogna a paro è strumento solista, spesso accompagnata dal tamburello o dal cerchietto e da flauti di canna. Esiste un ricchissimo repertorio solistico costituito dai cosiddetti ballitti dall’andamento ritmico vivace, binario o ternario (quello della tarantella è il modulo ritmico preferito), sui quali si componevano le tradizionali figure di danza nelle più svariate occasioni di festa. Fino agli anni Cinquanta la zampogna a paro allietava le giornate nei campi, rendeva meno faticoso il lavoro della vendemmia e a Natale veniva utilizzato in funzione di accompagnamento al canto della litania e delle novene in chiesa. La Suonata è la forma musicale caratteristica del repertorio tradizionale. Un preludio a ritmo libero iniziale precede sempre l’esecuzione di Pastorali o Nenie. Infine si eseguono i ballitti. La Sunata si conclude sempre su una nota tenuta. Eseguirò per gli amici del Festival una Sunata appresa per tradizione orale da suonatori della provincia di Messina e alcune nenie e ballitti che conosco per averli ascoltati dalla viva tradizione di suonatori siciliani e calabresi incontrati in diverse occasioni. Devo a loro l’amore per questo meraviglioso strumento e la conoscenza di un repertorio tradizionale che rappresenta un tesoro di rara bellezza.
(Antonio Vasta 2015)
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Ex Fabbrica di organi Zanin e altri luoghi
Sara Tozzato, Invanescente
installazioni site-specific, acrilico su fogli di cartapesta, formati vari, 2015
per gentile concessione dell’artista e di Agitprop Galerie, Mestre
Cosa ammiriamo in un dipinto che dopo secoli arriva a noi con materiali e colori
manipolati da luce e aria alteratesi nell’evolvere del loro stagnare? E il soggetto rappresentato non ha ormai mutato la prima autentica emozione suscitata a fine stesura? Quando riproponiamo un evento passato, in una qualsiasi forma, selezioniamo ed elaboriamo solo parte di ciò che ha riempito i momenti della storia. Operiamo scelte lavorando l’argilla del tempo e consegnamo proiezioni conformi a un
peculiare profilo personale e temporale, sapendo che mai potremo reimmergerci nel vero di un momento concluso o comprendere appieno il pensiero di chi è stato. Costruiamo strutture approssimative con le quali dialogare e confrontarci, degli intermediari temporali. Sono però solo fragile materia che gli elementi naturali appiattiranno al suolo con distaccato fluire. Sono solo lampi evanescenti, sono solo vane scene, sono solo corpi in fogli di cartapesta, invanescente.
(Sara Tozzato 2015)
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pubbliche affissioni a Camino al Tagliamento
con ulteriori disseminazioni ad Atene, Bologna, Codroipo,
Grado, Firenze, Capodistria, Latisana, Livorno, Lubiana,
Padova, Paese, Pisa, Pistoia, Pordenone, Rivignano, Söll,
Treviso, Trieste, Udine, Venezia, Villach
Tom Nicholson | Comparative
monument (Palestine)
Trovo nove monumenti che portano il nome “Palestina” a Melbourne e nei dintorni: a Avoca, Caulfield, Coburg, Donald, Kew, Longwarry, Mooroopna, North Melbourne, e Terang. Questi monumenti ricordano la presenza dei soldati australiani in Palestina durante la Prima Guerra Mondiale e il loro ruolo nella presa da parte degli inglesi di Bir Sab’a, o Beersheba (o Be’er Sheva, come è conosciuta al momento della conquista da parte dei soldati israeliani nel 1948, quando la sua popolazione viene sterminata o deportata a Gaza via camion e la città diventa parte del nuovo stato di Israele). Cammino proprio lungo il limite di questo enorme spazio aperto, circondato da un recinto senza cancello. E’ incuneato tra la storica città ottomana di Bir Sab’a e la nuova città israeliana, un quartiere di uffici di vetro, un centro commerciale e una strada a otto corsie con il traffico che sfreccia in entrambe le direzioni. È da qui che entrano a Bir Sab’a i soldati israeliani nel 1948. È il luogo dove sorge il cimitero islamico della città. La luce radente del sole fa emergere le pietre che si confondo alle macerie, tra le lapidi erose sparpagliate tra le distese di terra nuda e erba alta. I luoghi dove si trovano i nove monumenti che portano la parola “Palestina” sono bonificati: i nove monumenti sono raccolti, spediti da Melbourne a Tel Aviv e trasportati via camion a Bir Sab’a. Installati in un’unica direttrice, ogni monumento si appoggia a quello vicino, fianco a fianco, a creare un complesso lungo sessanta metri che taglia diagonalmente la strada trafficata lungo il vecchio cimitero, il Boulevard David Hacham. Tutta quella pietra, la mole e il peso degli obelischi, la rotonda e il marmo scolpito diventano una specie di freccia, un segnale storico sovradimensionato che punta verso quell’immenso spazio aperto circondato da un recinto. È una direttrice per i soldati che da lì vogliono entrare nella città. Le nove iscrizioni dicono la stessa cosa: Palestina. Palestina. Palestina. Palestina. Palestina. Palestina. Palestina. Palestina. Palestina.
(Tom Nicholson 2014, trad. dall’ingl. di Valentina Merzi)
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Fienile di orte Danussi
Sabrina Muzi | Accerchiamento
Il lavoro si sviluppa attraverso un’azione continua di costrizione e resistenza. Spunti
di riflessioni riguardano il rapporto tra l’entità di gruppo e il singolo, tra la diversità dei sessi, tra un sistema costituito e il diverso. Il ritmo del video è incessante e ripetitivo e sembra non condurre a una possibilità di soluzione, ma il lavoro non vuole mostrare un’esito quanto invece la dinamica di una tensione fisica e psicologica tra le parti.
(Sabrina Muzi 2002)
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Sala Esposizioni di casa Liani
Valentina Merzi, Io non ero qui
«“Questo non posso crederlo!”, dichiarò Alice. “Proprio non puoi?”, chiese la Regina in tono compassionevole. “Prova ancora: fai un respiro lungo e chiudi gli occhi”. Alice si mise a ridere. “Non serve a nulla provare”, disse: “Non si può credere alle
cose impossibili”. “Oso dire che tu non hai molta pratica”, affermò la Regina. “Quando avevo la tua età, facevo sempre questo esercizio per mezz’ora al giorno. Diamine, certe volte ho creduto fino a sei cose impossibili prima di colazione!”» (da Attraverso lo specchio di Lewis Carroll) Potrei definire questo lavoro come un’opera di rielaborazione fotografica, esattamente come è una rielaborazione della mente quella che mi interessava rappresentare: il modo in cui noi creiamo dei ricordi fittizi, non solo collegati al passato ma anche come immaginari in presenza. Confabulation è il termine inglese con il quale si individua questo processo, la creazione di false memorie, per lo più inconscia, proprio come affabulazione è dare forma di favola, sviluppare in un intreccio o in un’azione scenica. In questi ultimi anni il tema principale della mia ricerca è stato il rapporto tra memoria collettiva, privata e la loro rappresentazione visiva, principalmente tramite la fotografia. Quando mi è stato chiesto di lavorare ad un’opera collegata al tema della guerra, come prima cosa ho ripensato all’ossessione che durante l’ultimo anno di liceo ci era stata inculcata per la memoria, che si declinava nella giornata della memoria, il monumento ai caduti, il tour tra le trincee della prima guerra mondiale e il memoriale dei sopravvissuti. L’interesse al dato, all’accaduto condiviso, al reale. Ma quello che mi ha affascinato veramente è il momento in cui l’Evento entra nella quotidianità e nella vita piccola di ognuno, a come ogni schema interpretativo diventi immediatamente inadeguato, a come si sopravviva ad un esterno che non si può evitare e che non si riesce a fare proprio. Sono stata sempre una grande narratrice di autobiografie e ho dato il mio meglio nei momenti in cui quello che c’era attorno diventava talmente indecifrabile da generare immaginari salvifici più credibili del dato di realtà, “Io non ero qui” è semplicemente un’utopia visiva di sopravvivenza.
(Valentina Merzi 2015)
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ore 21 Auditorium Davide Liani
Pacem in terris, Hiroshima, Nagasaki et al. 1945-2015
Francesca Cescon flauto
Alessandro Segreto pianoforte
Un’invocazione e un grido accomunano i brani di Pacem in terris, concerto nel quale flauto e pianoforte incarnano la disperazione che la guerra alterna a fiochi barlumi di speranza. La voce straziata dei superstiti delle bombe atomiche risuona nel Requiem di Fukushima che si chiude con una preghiera per i defunti affinché tutto non vada dimenticato. Le Incantations di Jolivet colpiscono soprattutto per la ritualità di azioni musicali ossessivamente ripetute. Tra tutte colpisce soprattutto la quarta, Pour une communion sereine de l’être avec le monde, dove sembra darsi al genere umano ancora una speranza di convivenza pacifica. Speranza che lascia spazio allo sconforto in Chant de Linos, canto funebre e militare di matrice greca. Con la Seconda Guerra Mondiale nel pieno della sua devastazione, il brano appare come una Guernica sonora, attraverso l’uso estremamente percussivo non solo del pianoforte ma anche del flauto. Forse solo tornando alla Natura l’Uomo potrà finalmente ritrovare la pace, e Le merle noir di Messiaen indica la speranza di una tranquillità e comunione ritrovate tra gli uomini, espressa magnificamente nel dialogo tra i due strumenti. Tra i brani per flauto solo o accompagnato dal pianoforte, il programma incunea tre lavori per pianoforte solo: un rarissimo Stravinskij che dispiega tutto il suo sarcasmo antibellico con una marcia, crucca (boche) quanto i crucchi messi alla berlina, ironia di una parodia alla massima potenza che trionfa dissolvendosi nella mimesi; il brano dell’australiana Helen Gifford, dal colore corrusco e sinistro, dove il pianoforte utilizzato quasi sempre nel registro grave pare riprodurre i colpi sordi e ovattati di esplosioni lontane; l’étude di Vaglini è dedicato alla memoria della demolizione della città palestinese di Jenin, trasformata in lapidarium al passaggio dei bulldozer israeliani. Un unico accordo su sei tasti viene ripetuto per l’intera durata: solo il tocco differente su alcuni di essi suggerisce una memoria o traccia di una forma tridimensionale ormai schiacciata e resa irriconoscibile.
(Francesca Cescon 2015)